Text by ANDREA BOCCA
Translation and proofreading GIULIA GIUDICI
Images courtesy of JOYRIDE INTERNATIONAL
È già mattina tardi quando mi risveglio al fianco di due corpi nudi. Due corpi bianchi e asciutti, tatuati, incastrati tra loro quasi a voler imitare gli ingranaggi di un qualche marchingegno sodomita. Li osservo senza ricordare nulla di come siano finiti nel mio letto. Per un attimo, li sovrappongo al riflesso della vetrata di una cattedrale bretone vista tanti anni prima – scomposta in spicchi d’innaturali colori – raffigurante due agonizzanti martiri stretti tra loro. Ho trascorso la mia ultima notte di libertà al club, tra corpi sudati e allucinazioni. Ho gridato, toccato, cercato la bocca calda di chi come me sembrava in procinto di lasciare tutto.
Mi trascino in cucina pesante come una città annientata dall’orrore delle armi. Mi siedo e come ogni mattina controllo il cellulare.
“Qui tutto bene, chéri. Il sole brucia e le persone più la pelle si scurisce e più sorridono. Il cibo, beh lo sai, il cibo è quello che è. Aspetto tue notizie. Ora vado; mi aspetta un Martini annacquato da qualche ballo latino”
Ricevo email di mia madre come questa circa una volta alla settimana. Mi scrive da Lanzarote. Ci si è trasferita subito dopo essere andata in pensione. A quanto pare, la Lancia-carote sembra aver surclassato di gran lunga le sorelle Canaglie, diventando di fatto il nuovo incontestato paradiso per pensionati. La immagino con un capello texano in testa, digitare concentrata con l’indice sulla tastiera, abbrustolita al sole.
È grazie a mia madre che ho assimilato l’ossessione per cowboy e film western. Funi, catene, prigionieri e sottomissioni. Ricordo con dolcezza come non riuscissi a staccare gli occhi da certe immagini – io e mia madre, seduti in qualche polverosa cinémathèque –, desiderando con ogni particella del mio corpo di poter essere legato anch’io insieme a quei poveri condannati. Costrizioni, riti e poi l’antico Egitto. Anche quello mi ha insegnato mia madre. È così che ho scoperto l’arte della mummificazione. Come devono sentirsi quei corpi imprigionati tra le garze di lino, mi domandavo. O i neonati, dal paleolitico fino a oggi, avvolti e fasciati nei più svariati involucri. Loro, quei fagotti statici, come dovevano sentirsi?
Dopo aver scacciato i due avvenenti e pallidi compagni di notte, mi metto a sistemare casa. Quello che sto per fare, quello che sto per diventare, richiede ordine e pulizia. Lavorare, sudare, sentirmi vivo, fremente, per meglio affrontare la mortifera immobilità che si staglia sull’avvenire come ombre arabesche. Dagli speaker in sala, “Limbo” dei Sin Cos Tan riecheggia a tutto volume. Volteggio e mi sciolgo in movimenti animaleschi, sorridente, vizioso.
«Ci siamo quasi».
Scegliere l’immobilità, la solida immobilità, oggi, è considerato contro corrente. Primitiva follia. Sfuggendo a qualsiasi reclamazione celeste, però, che è ciò che più importa, mi autoproclamo unico possessore della mia carne, del mio ammasso di nervi. Non sono un cadavere alla mercé di avvoltoi affamati e muniti di aureole; mi possiedo nella mia interezza.
Omero mi guarda con impazienza. Se ne sta in un angolo del salone a fumare. Sono mio senza alcuna restrizione, finché ne ho voglia, o mi è possibile. Per questo ho bisogno di Omero, per questo l’ho comprato. Senza di lui, adesso, i miei volgari sogni e le mie fiamme sarebbero terra bruciata, bozze da stracciare destinate al pattume. Omero è capace di tutto. Una creatura liminare – così simile a quella „fatta di golem e tzurah […] e poi diventata polvere“ – in grado di eseguire gesti e mimiche puramente umane attraverso innumerevoli attuatori e meccanismi. Un cyborg, un cervello umano impiantato in una corazza metallica rivestita di pelle; ecco cos’è. E mentre esperti di tutto il mondo dibattono ancora su discutibili „questioni d’anima“ in merito agli esseri cibernetici, io, per quanto possa essere considerata irrilevante l’opinione di un amante, assicuro intenerito che Omero ne possieda una.
«Fammi diventare la tua mummia, Omero. Fammi diventare un santuario, un oggetto, un mito, l’unione di acque sacre e sporche».
Voglio lasciare questo mondo mobile per abbandonarmi all’immobilità totale, accudito e nutrito da Omero. Al sicuro, come un povero prigioniero, nelle spire di un lazo da
vecchio West. C’è così poca speranza per tutti. Sento la frenesia del mondo ronzare sempre più forte e sono esausto. Ho bisogno di silenzio e protezione. Qualcuno sostiene che gli esseri umani siano diventati un semplice anello evolutivo, progenitori di un pastone organico fatto di embrioni mitologici e iper-tecnologici. Io, per quanto mi riguarda, sono semplicemente ciò che mi viene naturale essere: evito con convinzione qualsiasi stupida rivendicazione di potere sul mondo, su qualsiasi cosa. Riconosco la supremazia delle macchine sulla materia umana. Una Era questione di tempo prima che il corpo, il nostro involucro, diventasse una mera accozzaglia obsoleta.
«Coprimi con la mia nuova muta, il mio bozzolo, la mia corazza corvina, fatta di pelle morbida e circondata da fibbie, cinghie e cerniere».
Ho bisogno d’ingannare la morte per rinascere. Tuttavia, non sono un mostro e mi interessano ancora poche semplici cose in questa vita. So, ad esempio, cosa causerebbe la mia improvvisa scomparsa, soprattutto per mia madre. Per questo ho chiesto a Omero di rispondere alle sue email; sono sicuro che farà un ottimo lavoro, forse migliore del mio.
«Fino in fondo?»
«Sì, fino in fondo?»
Omero, adesso, mi guarda dritto negli occhi e sorride – un sorriso enigmatico, il sorriso di un comandante in procinto di una gloriosa vittoria. Subito dopo mi bacia. Sento le sue labbra inumidirsi e scivolare sulle mie. Ho ancora gli occhi chiusi quando Omero fa sparire la mia testa tirando l’ultima cerniera. Non c’è nessun Houdini, o escapologia; non c’è né trucco né ripensamento. Nessuna emulazione o superficiale feticismo. C’è invece un corpo in deliberato ostaggio, disteso su un letto al centro di una stanza. C’è un parquet circondato da pareti pallide. C’è Omero, che, scansati gli scorci mistificatori di un lontano Eden, si appresta a lasciarmi, sicuro nella sua scandalosa andatura umana. Ci sono io. In questo momento, qui, c’è tutto, c’è ancora vita.
Text by ANDREA BOCCA
Translation and proofreading GIULIA GIUDICI
Images courtesy of JOYRIDE INTERNATIONAL
It is already late in the morning when I wake up beside two naked bodies. Two lean, white, tattooed bodies stuck together as if to imitate the gears of some sodomite contraption. I watch them without remembering anything about how they ended up in my bed. For a moment, I superimpose them on the reflection of the stained-glass window of a Breton cathedral I saw so many years ago –tessellated with tiles of unnatural colors– depicting two agonized martyrs clutched together. I spent my last night of freedom at the club, amid sweaty bodies and hallucinations. I screamed, touched, sought the warm mouths of those who seemed, like me, about to leave everything behind.
I drag myself into the kitchen, heavy as a city annihilated by the horror of war. I sit down and, like every morning, I check my cell phone.
„All is well here, chéri. The sun is scorching, and the darker people’s skin gets, the more they smile. The food… well you know, the food is what it is. I’m waiting to hear from you. Gotta go now; a Martini awaits me, watered down by some Latin dancing.“
I get emails like this from my mother about once a week. She writes to me from Lanzarote. She moved there soon after retiring. Apparently, Lanza-rowdy seems to have far outclassed her Calm-nary Sisters, becoming in fact the new uncontested paradise for retirees. I imagine her in a Texas hat, typing intently with her index finger on the keyboard, toasting in the sun.
It was thanks to my mother that I assimilated the obsession with cowboys and Westerns. Ropes, chains, captives and submission. I remember fondly how I couldn’t take my eyes off certain images –my mother and I, sitting in some dusty cinémathèque– wishing with every particle of my body that I, too, could be bound along with those poor convicts. Constraints, rituals, and then Ancient Egypt. My mother taught me that, too. That’s how I discovered the art of mummification. How must those bodies feel, entangled in linen gauze, I wondered. Or newborn babies, from the Paleolithic to the present day, swathed and swaddled in the most various wrappings.
After chasing away the two handsome and pale companions of the night, I start tidying up the house. What I am about to do, what I am about to become, requires order and cleanliness. Working, sweating, feeling alive, thrumming, to better cope with the deadly stillness that looms over the future like arabesque shadows. ‘Limbo’ by Sin Cos Tan echoes loudly from the speakers in the living room. I turn and melt into animalistic movements, smiling, vicious.
“Almost done.”
Choosing stillness, solid immobility, today, is seen as against the current. Primitive folly. Escaping any heavenly claim, however, which is what matters most, I proclaim myself the sole possessor of my flesh, my mound of nerves. I am not a corpse at the mercy of hungry, haloed vultures; I own myself in my entirety. Omero looks at me impatiently. He stands in the corner of the living room smoking. I own myself without any restriction, as long as I feel like it, or as long as I can. For this I need Omero, for this I bought him. Without him, now, my vulgar dreams and my flames would be scorched earth, shredded drafts destined for the dustbin. Omero is capable of anything. A liminal creature –so similar to the one ‘made of golem and tzurah […] and then turned to dust’– able to perform uniquely human gestures and expressions through countless actuators and mechanisms. A cyborg, a human brain implanted in a skin-covered metal shell; that’s what he is.
And while experts around the world still dispute debatable „soul-related issues“ regarding cybernetic beings, I, as irrelevant as a lover’s opinion may be considered, tenderly assure that Omero possesses one.
„Make me your mummy, Omero. Make me a shrine, an object, a myth, the union of sacred and filthy waters.”
I want to leave this shifting world to surrender myself to total immobility, cared for and nurtured by Omero. Safe, like a poor prisoner, in the coils of an Old West lasso. There is so little hope for everyone. I feel the frenzy of the world humming louder and louder, and I am exhausted. I need silence and protection. Some argue that humans have become a mere evolutionary link, progenitors of an organic mash made of mythological and hyper-technological embryos. I, for one, am simply what is natural for me to be: I shun with conviction any silly claim of power over the world, over anything. I recognize the supremacy of machines over human matter. It was a matter of time before the body, our shell, became a mere obsolete jumble.
„Cover me with my new molt, my cocoon, my black armor, made of soft leather and surrounded by buckles, straps and zippers.”
I need to cheat death to be reborn. However, I am not a monster and I still care about a few simple things in this life. I know, for example, what my sudden demise would cause, especially for my mother. That is why I asked Omero to answer her emails; I am sure he will do a great job, perhaps better than mine.
„All the way?”
„Yes, all the way.”
Omero, now, looks me straight in the eye and smiles – an enigmatic smile, the smile of a commander on the verge of a glorious victory. Immediately he kisses me. I feel his lips moisten and slide over mine. My eyes are still closed when Omero makes my head disappear by pulling the last zipper. There is no Houdini, or escapology; there is no trick or afterthought. No emulation or superficial fetishism. Instead, there is a body in deliberate hostage, lying on a bed in the center of a room. There is a parquet floor surrounded by pale walls. There is Omero, who, having scanned the mystifying glimpses of a distant Eden, is about to leave me, secure in his outrageously human gait. There is me. In this moment, here, there is everything, there is still life.
copyright 2023 – The Metalhead Magazine